Lo sviluppo umano alla prova del liberismo: un dibattito aperto
 
Per la prima volta dopo il 1945 il mondo, soprattutto il mondo occidentale, sperimenta un peggioramento prolungato della sua situazione e delle sue prospettive economiche. Quanto a queste, in realtà, neppure il resto del pianeta, inclusi i paesi a rapida crescita, le vede migliorare di molto: ma per l’Occidente, abituato o drogato da sessanta anni di sviluppo costante con poche e brevissime eccezioni, si tratta di una rilevante, e negativa, novità.

La crisi, innescata nel 2007 dalla insolvenza di massa dei mutui subprime negli Stati Uniti e poi diffusasi agli altri paesi, continua ad appesantire il suo conto: e forse si è ancora solo all’inizio. Infatti, non si tratta più soltanto della contrazione dei dati sull’evoluzione del prodotto interno lordo, ma del peggioramento generalizzato del tenore di vita, che poi rimbalza a sua volta sulle stesse performance economiche, in una spirale negativa che sembra annodarsi senza fine. Di qui il clima di generalizzato pessimismo fra i responsabili politici, gli analisti e gli operatori economici. Le ricette proposte per la soluzione del problema sono molte, ma nessuna di esse ottiene un consenso sufficientemente ampio da essere messa in pratica in misura adeguata: anzi, esse sembrano quasi annullarsi l’un l’altra.

Alla fine degli anni Ottanta le Nazioni Unite elaborarono un programma, denominato UNDP, volto a superare il concetto fino ad allora prevalente di crescita basato solo sull’economia. Emerse così l’idea dello sviluppo umano, in cui si tiene conto, oltre che dei dati economici, anche di alcuni fondamentali aspetti politici e sociali. Tra questi, la promozione dei diritti umani e l'appoggio alle istituzioni locali con particolare riguardo al diritto alla convivenza pacifica, la difesa dell'ambiente e lo sviluppo sostenibile delle risorse territoriali, lo sviluppo dei servizi sanitari e sociali, il miglioramento dell'educazione della popolazione, l'alfabetizzazione e l'educazione allo sviluppo, la partecipazione democratica, l'equità delle opportunità di sviluppo e d'inserimento nella vita sociale. Nel decennio successivo venne invece elaborato in altri ambiti il concetto di libertà economica, definita come l’assenza di ostacoli da parte dello Stato all'agire individuale e misurata mediante dieci parametri: libertà imprenditoriale, fiscale, monetaria, finanziaria, dallo Stato, di scambio, d'investimento, dalla corruzione, del lavoro e inoltre diritti di proprietà. Questi parametri riguardano pertanto sia



fattori macro-economici, sia la facilità concessa o la difficoltà frapposta ad aprire e gestire un'attività economica.

Se proviamo a mettere insieme i dati che esprimono queste due analisi (vedi grafico) emergono considerazioni di notevole interesse. Anzitutto, esaminando le 12 principali economie mondiali, emerge che, su una scala da 1 a 100, fra il 2000 e il 2010 tutte, salvo la Corea del Sud, hanno registrato un peggioramento dell’indice dello sviluppo umano. Anche se non molto forte, in media 3,2 punti circa, esso è però più che sufficiente per essere avvertito, tanto più che sia fra i vari paesi, sia fra gruppi sociali e aree geografiche all’interno di essi, le differenze sono certamente più elevate . Colpisce comunque il peggioramento della Gran Bretagna, 6,9 punti, nonostante i 13 anni di governo laburista: è certamente qui una spiegazione della rivolta delle periferie nello scorso agosto. Il peggioramento è comunque più marcato nel vecchio Occidente e in Giappone, 4,1 punti in media, anche se Germania, Spagna e Stati Uniti registrano scarti più bassi, cioè migliori. In generale, comunque, nell’ultimo decennio lo sviluppo umano, o se si vuole la condizione umana, è peggiorato sensibilmente nel mondo e in modo particolare nei paesi di più antica industrializzazione: e con esso è aumentato il malessere sociale.

Da molte parti si sostiene anche che alla radice della bassa crescita vi è l’insufficienza della libertà economica. Questo è certamente vero: la correlazione fra rapida crescita e elevata libertà economica è troppo generalizzata per porla in dubbio. I casi più evidenti sono quelli della Cina e dell’India: da quando, verso la fine degli anni Settanta, nei due paesi l’economia è stata almeno parzialmente liberalizzata essi hanno conosciuto spettacolari balzi in avanti. Tuttavia il grafico, nel quale è rappresentato anche il grado di libertà economica, sempre in scala 1-100, dice che la libertà economica non è di per sé sufficiente a garantire un miglioramento della condizione umana: in molti casi un peggioramento di quest’ultima coincide con un buon livello di libertà economica, come nel caso della Gran Bretagna e della Francia. La cosa va interpretata con un grano di sale: la libertà economica non è certo irrilevante per lo sviluppo umano, tutt’altro, ma ne è una condizione insufficiente, pur se necessaria. Occorrono, al riguardo, parecchie altre cose.

Nel partito socialdemocratico tedesco, che contenderà fra non molto la guida del paese ai cristiano democratici di Angela Merkel, è in corso un dibattito sul rapporto fra liberismo economico e condizione umana (il liberismo non è la libertà economica, ma ne è la traduzione più spinta sul piano politico). La tesi che emerge sembra essere la seguente. La rinascita del pensiero liberista, soprattutto nella sua forma neoclassica, all’inizio degli anni Settanta, viene spesso rappresentata come un processo di liberazione progressiva. Ma con la fine della guerra fredda nel 1989/90 finirono anche molte abituali sicurezze sulla vita, sul comportamento e sul pensiero. Dal quel cambio epocale festeggiato anche come la vittoria della libertà economica, il mondo funziona in effetti come un mercato unico in cui l’egemonia di una versione radicale del liberismo ha portato a far sì che molti considerassero i controlli sulle forze economiche come una restrizione alla libertà: la deregolamentazione illimitata apparve come la via regia al benessere generale e alla libertà universale. Ma negli ultimi anni queste illusioni sono state messe in grave crisi. Emerge invece una pressante richiesta di controlli democratici sulle forze economiche e sul sistema finanziario mondiale, anche se una critica convincente dell’economicismo dal punto di vista della libertà politica e sociale manca ancora.

Dal canto suo, in una critica filosofica della scienza economica moderna Karl-Heinz Brodbeck, un influente libertario che insegna teoria economica all’Università di Monaco, scrive: “La rappresentazione neoclassica della libertà umana così come se ne parla generalmente equivale alla ‘libertà di movimento‘ di un pendolo meccanico o del volante di un’auto”. Secondo lui, il problema consiste nel fatto che la maggioranza degli economisti ritiene di poter comprendere l’agire umano nell’ambito di una “fisica sociale”. Quel che questo tipo di scienza non capisce, prosegue Brodbeck, è che la libertà è qualcosa di più di un numero definito di opzioni calcolabili in uno spazio circoscritto, che la libertà progetta e modella in sé stessa molto più dello spazio in cui essa si muove.

Secondo questi approcci, saremmo quindi di fronte a un doppio fallimento, anzi a un doppio inganno. Il liberismo estremizzato ha imposto sforzi rilevanti alla popolazione, in modo particolare proprio a quella sua parte che lavora nell’ambito dei mercati concorrenziali – che poi ne è la parte più rilevante. In cambio esso aveva offerto la promessa di maggiori conquiste: la promessa cioè che sforzi e privazioni sarebbero stati compensati da conquiste in termini di reddito e quindi di libertà. Essa suonava più o meno così: se voi sostenete la libertà economica con tutte le vostre forze, dovete accettare una ferma disciplina, lavorare duramente e costantemente e sottomettere i vostri pensieri e le vostre azioni alla logica economica. In cambio di questo riceverete però un reddito crescente, che vi consentirà di migliorare costantemente il vostro tenore di vita e al tempo stesso di ottenere più libertà, che consiste nella scelta fra opzioni di consumo sempre più differenziate. Se accettate questo tutti i sacrifici vi saranno largamente ricompensati.

Ma la crisi ha messo in chiara evidenza che la promessa di un aumento costante delle opzioni di consumo, che è la manifestazione concreta del miglioramento del tenore di vita, non si realizza più. Non solo, ma è addirittura in corso un peggioramento, come mostra la discesa degli indici dello sviluppo umano, oltre che di quelli economici. I sostenitori di questi approcci lo dicono meno brutalmente, ma la loro posizione si potrebbe sintetizzare in una cruda espressione nostrana: il liberismo economico estremizzato ha reso la maggioranza di noi cornuti e bastonati.

Ė davvero così? O siamo di fronte a malintesi gravidi di conseguenze? L’esperienza storica mostra che quando si comincia a criticare troppo la libertà economica in nome di altre libertà si finisce con il restringerla eccessivamente senza che quelle ne traggano vantaggio, anzi. Però il peggioramento della condizione umana in questi ultimi anni è innegabile, come i dati sull’evoluzione dello sviluppo umano mostrano chiaramente. Il punto è che è venuto a mancare un equilibrio: ci si è spinti troppo in una direzione a scapito dell’altra.

Il dibattito politico-economico in corso nello SPD è con ogni probabilità il battistrada di uno più ampio che si svolgerà nei prossimi anni e il cui tema sarà come mantenere i vantaggi della globalizzazione – che in definitiva è il principale risultato dell’ondata liberista – senza però compromettere ulteriormente la condizione economica e lo sviluppo umano delle masse, anzi facendo riguadagnare a quest’ultimo delle posizioni. La prima cosa su cui riflettere è quali siano stati gli errori che hanno portato all’attuale stridente contraddizione, con i suoi risultati negativi. Errori che non sono imputabili alla estensione della libertà economica in sé, ma al modo in cui questa è avvenuta. I principali fra quegli errori sono stati l’eccessiva velocità dei processi di globalizzazione e l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia mondiale.

Il primo errore è ormai difficilmente rimediabile, ma sul secondo è ancora possibile intervenire. Alla finanza è stato consentito troppo e soprattutto di estendersi quasi all’infinito senza alcun rapporto con la base economica sottostante. Il principio tecnico alla radice di questo è il leverage, cioè in parole povere l’indebitamento, la possibilità di operare prendendo a prestito risorse finanziarie secondo multipli crescenti delle garanzie disponibili (il caso Leman Brothers è solo il più clamoroso fra tanti). I finanzieri, o almeno la maggioranza di essi, sono assurti a protagonisti dell’economia mondiale, usurpando il ruolo dei governi e relegando in un angolo gli imprenditori dell’economia reale. La situazione che viviamo è quindi in buona parte dovuta a loro.

Non si potrà far ripartire veramente l’economia mondiale e migliorare la condizione sia economica sia umana e sociale della gente senza aver riportato la finanza mondiale entro i binari della logica e del buon senso mediante adeguati controlli che di necessità potranno essere eseguiti solo da entità sovranazionali. Purtroppo al riguardo sussistono tuttora forti resistenze: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna non se ne vuole neppure sentir parlare. Ma si potrebbe ricordare quello che il primo ministro francese Georges Clemenceau disse nel 1917, che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai militari: e parafrasarlo osservando che l’economia mondiale è una cosa troppo importante per lasciarla in mano a dei finanzieri irresponsabili.


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