I fattori piu' problematici nel gestire una attivita' economica in italia


Ho trascorso l’estate negli Stati Uniti dove, ovviamente, le preoccupazioni maggiori erano per la sicurezza nei confronti del terrorismo e per la situazione in Irak (con l’occhio puntato alle elezioni presidenziali). Se però il discorso cadeva sull’Italia, si ascoltava un unico ritornello: “Splendido posto per le vacanze, gente molto simpatica. Ma come paese industriale state scomparendo”.

Giudizio certamente un po’ troppo crudo: d’altronde gli americani non sono rinomati per la ricerca di nuances nel discorso. Comunque del fatto che in Italia sia in atto una crisi di competitività non dubita ormai più nessuno nemmeno da noi (era ora): e del resto basta dare un’occhiata ai numerosi studi in materia per rendersene conto. E’ preoccupante però che la sensazione di un arretramento della nostra posizione fra i paesi avanzati sia ormai arrivata alla percezione anche di chi all’Italia dedica non molto più di qualche occhiata distratta.

Questa crisi si manifesta in parecchi modi diversi. Anzitutto c’è la perdita di terreno sui mercati internazionali nei confronti tanto dei concorrenti tradizionali quanto dei nuovi, temibili paesi emergenti. Ma non meno gravi sono la difficoltà ad attrarre capitali stranieri se non per l’acquisizione di aziende già esistenti (e quindi senza creazione di attività nuove), la perdita di credibilità nei confronti proprio del mondo anglosassone, le stranote eppure mai risolte carenze della pubblica amministrazione e delle infrastrutture.

Il quadro è proprio così negativo? In parte lo è certamente, ma forse alcuni giudizi un po’ affrettati vanno rivisti, soprattutto per trovarvi spunti di riflessione per azioni migliorative. E’ questo il compito che si è assunto l’ampio Rapporto realizzato da poco congiuntamente dalla Università Bocconi e dalla Fondazione Italiana Accenture (L’attrattività del sistema paese, Il Sole 24 Ore, 2004), che consente di guardare alla situazione da un punto di vista diverso e con conclusioni abbastanza innovative. Lo studio, condotto con criteri tecnici rigorosi e quindi inevitabilmente un po’ complesso, è però attento a rendersi comprensibile alle tre audiences alle quali si rivolge, le imprese, i policy makers e la comunità scientifica e accademica. Esso costituisce inoltre il primo atto di un Osservatorio che avrà caratteri permanenti sull’attrattività del sistema Italia.

Che cosa è l’attrattività? Essa si può definire come la capacità di attirare, valorizzare e trattenere risorse e competenze chiave: in un certo senso è la precondizione che, se raggiunta, consente di raggiungere la competitività e la crescita sostenibile. E’ inoltre importante distinguere fra attrattività percepita, l’indagine volta a indagare l’attrattività del sistema agi occhi di chi guarda, e l’attrattività rivelata, cioè la scelta degli indicatori più adatti a descrivere i fenomeni che la compongono. Ma in buona sostanza, per essere competitivo un sistema territoriale deve essere in grado di attirare risorse finanziarie, tecnologiche e umane dall’estero, perché questo significa che esso è in grado di promettere per il futuro adeguati compensi. Non a caso una delle maggiori preoccupazioni che il Rapporto mette in luce è che il paese non riesce ad attirare risorse adeguate al potenziale che tuttora possiede: questo significa che, almeno per il futuro prevedibile, esso dovrà far fronte con risorse interne ai propri fabbisogni di investimento (in senso lato). Una difficoltà in più nei confronti dei sistemi concorrenti, che già si avvantaggiano dell’afflusso consistente e regolare di risorse dall’esterno.



Tuttavia l’Italia, come tutti i paesi del resto ma in misura anche più accentuata, lungi dall’essere un monolito compatto presenta al suo interno una amplissima varietà di situazioni diverse. Quel che va bene per un’area, un territorio, quasi sempre non va altrettanto bene a un altro territorio pur nell’ambito dello stesso paese. Nel nostro caso la dimensione che si presta meglio a questo tipo di analisi è quella regionale: ed è infatti quella che il Rapporto ha scelto per prima. Ma poiché anche all’interno delle singole regioni le situazioni sono alquanto differenziate, una seconda indagine molto analitica si è estesa al livello provinciale.

Soffermiamoci comunque sulla prima, dalla quale emergono sei diverse tipologie di aree territoriali. Nella prima figurano le regioni tradizionali, quelle che presentano un risultato negativo rispetto al benessere, alla propensione al cambiamento e al livello di competenza delle risorse: Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, il Mezzogiorno insomma. Qui nella misura in cui vi è stato sviluppo il ruolo principale è stato giocato dalla pubblica amministrazione ed è ancora questo soggetto che può agire in primis per lo sviluppo territoriale, incoraggiando la crescita, in atto ma ancora limitata, di imprenditorialità locale. La seconda tipologia è quella delle regioni ad alto potenziale – Abruzzo, Molise, Liguria, e Umbria - dotate di un buon livello di competenze, di propensione al cambiamento e di stakeholders ben differenziati, ma con popolazione anziana e mediocre livello di benessere. Per loro la ricetta proponibile è l’avvio di politiche per attrarre forza lavoro qualificata e sostenere l’innovazione, puntando a migliorare nel contempo il livello di benessere. Vi sono poi le regioni ad alto livello di benessere, come l’Emilia Romagna, le Marche, il Piemonte, la Toscana e il Veneto, che fruiscono di buone rendite di posizione, a cominciare dalle attrattive naturali, ed elevato tenore di vita. In questo caso occorre attuare politiche di rete per evitare rischi di diseconomie e puntare sulla imprenditorialità facendo leva sui giovani. Il quarto gruppo include le regioni a situazione competitiva protetta, il Friuli Venezia Giulia, il Trentino Alto Adige e la Val d’Aosta, regioni di confine dotate di ampie autonomie, per le quali le politiche di attrazione potrebbero puntare sull’alto livello della qualità della vita, del tessuto imprenditoriale e del benessere in modo da attrarre, formare e trattenere capitale umano qualificato e imprese ad alto contenuto di conoscenza.

Gli ultimi due gruppi contengono una sola regione ciascuno. La Lombardia, area ad alta agglomerazione, ricchissima di risorse e infrastrutture sul territorio, è quella che più attrae energie e capitali dall’esterno. Le si addicono quindi politiche orientate da un lato a stimolare il circolo virtuoso nel miglioramento della forza lavoro e dall’altro a contenere l’impatto negativo della agglomerazione sulla qualità della vita, creando centri di eccellenza e attivando strategie rivolte alla sostenibilità dello sviluppo territoriale. Il Lazio, in cui invece si ha massima concentrazione di pubblica amministrazione, presenta nell’area metropolitana alcune caratteristiche simili a quelle della Lombardia e nel resto alcune somiglianze con le regioni ad alto potenziale. Gli si addicono quindi politiche miste, che comunque partano dallo sfruttare al meglio le risorse umane e le reti della amministrazione pubblica per favorire lo sviluppo di attività private.

Il Rapporto dice queste cose e molte altre ancora: nel suo insieme esso costituisce un utilissimo strumento di lavoro per chi voglia fare qualcosa di utile, a qualsiasi livello, per migliorare l’attrattività del sistema paese. Ma una chiosa si rende pur necessaria. Il problema più difficile da risolvere è che la necessità di lavorare in modo differenziato rispetto alle singole situazioni regionali o sub regionali deve trovare il suo bilanciamento a livello di sistema (bisogna “fare sistema” si sollecita da tante parti), il che presuppone una forte capacità di coordinamento a livello centrale, tale da valorizzare senza frustrarle le potenzialità locali. Proprio quello che in quasi 150 anni di unità il paese non si è mostrato capace di fare, restando sempre sospeso fra un soffocante centralismo burocratico e tendenze centrifughe, quando non disgregatrici. Quanto sta avvenendo attualmente sul piano delle riforme istituzionali non sembra riflettere questa esigenza. Speriamo allora che i riformatori, in prima fila tra i policy makers, diano un’occhiata a questo e ad altri rapporti, prima di combinare ulteriori guai in aggiunta a quelli che languono sul tappeto in attesa di essere rimossi.

Antonio Martelli

Per essere informato su ogni aggiornamento del sito, inserisci il tuo indirizzo e-mail: